La famiglia Terracina: un ritratto.
Nonno Leone e nonna
Anna[1], che tutti chiamavano Nina, Lidia e i suoi quattro
figli - Anna, Leo, Cesare e il piccolo Piero - la sera
dopo cena avevano l’abitudine
di riunirsi attorno al tavolo per ascoltare papà Giovanni
che leggeva il giornale a voce alta, o che recitava le
parole pensate dal Belli, dal Trilussa e dai grandi poeti
d’Italia.
E poi arrivava il giovedì, quando grandi e piccini
rimanevano in silenzio mentre il concerto di musica classica
Martini&Rossi trasmesso alla radio riempiva le serate
romane di quella famiglia benestante, numerosa e felice.
Erano i primi anni Trenta, quando l’Italia di Mussolini
perseguiva il mito dell’Impero, quando la Germania
di Hitler sembrava lontana e i bambini ebrei andavano
a scuola, giocavano a pallone per strada, scorrazzavano
in bicicletta.
Poi il collasso. Dell’Europa. Dell’Italia.
Dei Terracina che rivivono nella memoria dell’unico
sopravvissuto a una famiglia sterminata.
Le leggi razziali del 1938 determinano l’espulsione
della famiglia dal tessuto sociale, Giovanni non può più lavorare,
i ragazzi e Piero bambino sono mandati via dalla scuola.
“Perché?” chiede il più piccolo
di casa alla maestra che gli vieta di entrare in classe.
“Perché sei ebreo”.
I Terracina, scampati alla razzia del 16 ottobre 1943,
riescono a nascondersi in un appartamento troppo piccolo
per tutti, così i bambini dormono nello scantinato
del palazzo, dove viene accumulato il carbone per il
riscaldamento; per cinque mesi la famiglia sopravvive
improvvisando un piccolo commercio, acquistando ciò che
trova per poi rivenderlo in qualche altra parte della
città; per cinque mesi otto persone vivono vite
clandestine, col cuore in gola e lo stomaco vuoto.
E’ il
7 aprile del 1944, quando la famiglia Terracina - denunciata
da un giovane fascista per la ricompensa di cinquemila
lire e di un chilo di sale- riunita attorno alla tavola
per festeggiare il Pesach, viene arrestata e condotta
nella prigione di Regina Coeli.
Quella sera c’è anche lo zio Amedeo. Non
hanno ancora iniziato a cenare, stanno cantando alcuni
salmi quando sentono bussare alla porta. Va ad aprire
Anna che torna sconvolta in sala da pranzo. Dietro di
lei le SS che iniziano a parlare, a urlare in tedesco,
lingua che nessuno capisce. Poi un soldato tira di tasca
un foglietto e lo consegna a Giovanni: c’era scritto:
-Venti minuti e dovete essere fuori. Portate via tutto
quello che avete di valore perché dove vi porteremo
vi potrà servire.
Arrivati in ambulanza nel carcere romano, i prigionieri
sono messi faccia al muro davanti all’ufficio matricole
con l’obbligo di non parlare, guardati a vista
da una sentinella. Sono prese le loro impronte digitali,
ed è registrato il loro ingresso.
E’ iniziata l’ultima fase della persecuzione;
quella del Lager.
I detenuti, infatti, sono dapprima trasportati nel campo
di Fossoli, e da qui, ad Auschwitz.
Il 17 maggio del 1944 sono portati alla stazione di Carpi,
caricati, stipati nei carri bestiame. Inizia una sofferenza
terribile: manca lo spazio per potersi riposare, ma più di
ogni altra cosa si soffre la sete.
Dopo un viaggio di sei giorni e sette notti il treno
si ferma ad Auschwitz.
Secondo le regole del campo, le
vittime sono suddivise in due file: donne e bambini a
destra, uomini a sinistra. Poi avviene, dapprima nella
fila delle donne e poi in quella degli uomini, la selezione:
a destra gli Arbeitsunfähige,
cioè le persone ritenute non adatte al lavoro
forzato: donne, bambini, malati ed anziani destinati
alla morte immediata nelle camere a gas; a sinistra chi,
invece, è ritenuto valido.
Leone, Lidia e Giovanni finiscono a destra; lo zio e
i nipoti, a sinistra.
Per Amedeo, Anna, Piero, Leo e Cesare inizia l’inferno
del Pianeta Auschwitz, dove tutto è orrore, violenza,
abbrutimento. Dove ogni momento - ha detto poco tempo
fa Piero Terracina - era il momento per morire.
E così è stato.
Zio Amedeo è condannato alle camere a gas durante
una delle prime selezioni.
Anna muore nel campo di Bergen Belsen. Prima di essere
trasferita, la ragazza che un tempo aveva capelli neri
ed un sorriso che faceva innamorare, incontra attraverso
il filo spinato e la Lagerstrasse che divide il campo
femminile da quello maschile, il fratello più piccolo
che prova a rassicurarla sulla sorte di Leo e di Cesare.
Leo muore probabilmente durante una marcia della morte.
E’ il gennaio del 1945, quando dal campo si sente
in lontananza l’artiglieria russa e quando Leo
e Piero si ritrovano nel ka-be del Lager. Sono solo pochi
giorni, poi Leo è rimandato nel block, mentre
Piero rimane in ospedale. Da allora non se ne sono avute
più notizie.
Cesare, dapprima trasferito nell’ottobre del 1944
a Danzica e poi a Echterrdingen, muore sotto gli occhi
dell’amico e compagno di prigionia Nedo Fiano.
Chi è tornato racconta ancora di quella sera in
cui fu chiamato per cantare davanti ai soldati e disse
a Cesare che sarebbe rientrato con qualcosa anche per
lui:
“… Potei lasciare la baracca con una buona
zuppa che intendevo portare a Cesare. Anzi, mi affrettai,
perché non volevo che si raffreddasse.
Giunto all’hangar dove erano tutti alloggiati mi
diressi al letto del mio amico.
“Cesare, Cesare, svegliati! Ti ho portato una buona
zuppa da mangiare. Cesare, hai capito?”
Cesare purtroppo non rispose. Era morto”. [2]
Elisa Guida |