Municipio XVI (ora XII)
Piazza Rosolino Pilo 17 - Roma
28 gennaio 2010
testo - video - profanazione  
 
La famiglia Terracina: un ritratto.

Nonno Leone e nonna Anna[1], che tutti chiamavano Nina, Lidia e i suoi quattro figli - Anna, Leo, Cesare e il piccolo Piero - la sera dopo cena avevano l’abitudine di riunirsi attorno al tavolo per ascoltare papà Giovanni che leggeva il giornale a voce alta, o che recitava le parole pensate dal Belli, dal Trilussa e dai grandi poeti d’Italia.
E poi arrivava il giovedì, quando grandi e piccini rimanevano in silenzio mentre il concerto di musica classica Martini&Rossi trasmesso alla radio riempiva le serate romane di quella famiglia benestante, numerosa e felice.
Erano i primi anni Trenta, quando l’Italia di Mussolini perseguiva il mito dell’Impero, quando la Germania di Hitler sembrava lontana e i bambini ebrei andavano a scuola, giocavano a pallone per strada, scorrazzavano in bicicletta.
Poi il collasso. Dell’Europa. Dell’Italia. Dei Terracina che rivivono nella memoria dell’unico sopravvissuto a una famiglia sterminata.
Le leggi razziali del 1938 determinano l’espulsione della famiglia dal tessuto sociale, Giovanni non può più lavorare, i ragazzi e Piero bambino sono mandati via dalla scuola.
“Perché?” chiede il più piccolo di casa alla maestra che gli vieta di entrare in classe.
“Perché sei ebreo”.
I Terracina, scampati alla razzia del 16 ottobre 1943, riescono a nascondersi in un appartamento troppo piccolo per tutti, così i bambini dormono nello scantinato del palazzo, dove viene accumulato il carbone per il riscaldamento; per cinque mesi la famiglia sopravvive improvvisando un piccolo commercio, acquistando ciò che trova per poi rivenderlo in qualche altra parte della città; per cinque mesi otto persone vivono vite clandestine, col cuore in gola e lo stomaco vuoto.
E’ il 7 aprile del 1944, quando la famiglia Terracina - denunciata da un giovane fascista per la ricompensa di cinquemila lire e di un chilo di sale- riunita attorno alla tavola per festeggiare il Pesach, viene arrestata e condotta nella prigione di Regina Coeli.
Quella sera c’è anche lo zio Amedeo. Non hanno ancora iniziato a cenare, stanno cantando alcuni salmi quando sentono bussare alla porta. Va ad aprire Anna che torna sconvolta in sala da pranzo. Dietro di lei le SS che iniziano a parlare, a urlare in tedesco, lingua che nessuno capisce. Poi un soldato tira di tasca un foglietto e lo consegna a Giovanni: c’era scritto: -Venti minuti e dovete essere fuori. Portate via tutto quello che avete di valore perché dove vi porteremo vi potrà servire.
Arrivati in ambulanza nel carcere romano, i prigionieri sono messi faccia al muro davanti all’ufficio matricole con l’obbligo di non parlare, guardati a vista da una sentinella. Sono prese le loro impronte digitali, ed è registrato il loro ingresso.
E’ iniziata l’ultima fase della persecuzione; quella del Lager.
I detenuti, infatti, sono dapprima trasportati nel campo di Fossoli, e da qui, ad Auschwitz.
Il 17 maggio del 1944 sono portati alla stazione di Carpi, caricati, stipati nei carri bestiame. Inizia una sofferenza terribile: manca lo spazio per potersi riposare, ma più di ogni altra cosa si soffre la sete.
Dopo un viaggio di sei giorni e sette notti il treno si ferma ad Auschwitz.
Secondo le regole del campo, le vittime sono suddivise in due file: donne e bambini a destra, uomini a sinistra. Poi avviene, dapprima nella fila delle donne e poi in quella degli uomini, la selezione: a destra gli Arbeitsunfähige, cioè le persone ritenute non adatte al lavoro forzato: donne, bambini, malati ed anziani destinati alla morte immediata nelle camere a gas; a sinistra chi, invece, è ritenuto valido.
Leone, Lidia e Giovanni finiscono a destra; lo zio e i nipoti, a sinistra.
Per Amedeo, Anna, Piero, Leo e Cesare inizia l’inferno del Pianeta Auschwitz, dove tutto è orrore, violenza, abbrutimento. Dove ogni momento - ha detto poco tempo fa Piero Terracina - era il momento per morire.
E così è stato.
Zio Amedeo è condannato alle camere a gas durante una delle prime selezioni.
Anna muore nel campo di Bergen Belsen. Prima di essere trasferita, la ragazza che un tempo aveva capelli neri ed un sorriso che faceva innamorare, incontra attraverso il filo spinato e la Lagerstrasse che divide il campo femminile da quello maschile, il fratello più piccolo che prova a rassicurarla sulla sorte di Leo e di Cesare.
Leo muore probabilmente durante una marcia della morte. E’ il gennaio del 1945, quando dal campo si sente in lontananza l’artiglieria russa e quando Leo e Piero si ritrovano nel ka-be del Lager. Sono solo pochi giorni, poi Leo è rimandato nel block, mentre Piero rimane in ospedale. Da allora non se ne sono avute più notizie.
Cesare, dapprima trasferito nell’ottobre del 1944 a Danzica e poi a Echterrdingen, muore sotto gli occhi dell’amico e compagno di prigionia Nedo Fiano.
Chi è tornato racconta ancora di quella sera in cui fu chiamato per cantare davanti ai soldati e disse a Cesare che sarebbe rientrato con qualcosa anche per lui:

“… Potei lasciare la baracca con una buona zuppa che intendevo portare a Cesare. Anzi, mi affrettai, perché non volevo che si raffreddasse.
Giunto all’hangar dove erano tutti alloggiati mi diressi al letto del mio amico.
“Cesare, Cesare, svegliati! Ti ho portato una buona zuppa da mangiare. Cesare, hai capito?”
Cesare purtroppo non rispose. Era morto”. [2]

Elisa Guida

 
[1] Nel ritratto della famiglia Terracina si è scelto di ricordare anche Anna Terracina, morta a Roma, pochi giorni prima della deportazione.
[2] N. Fiano, A5405. Il coraggio di vivere, Monti, Milano, 2006, p. 162.