Alberto Trionfi
Municipio I
Via della Lungara, 61- Roma
15 gennaio 2019

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Mio padre, Alberto Trionfi, è nato a Jesi da antica famiglia marchigiana il 2 luglio 1892, ultimo di quattro fratelli. Dopo un'infanzia serena, fu allievo della Scuola Militare di Modena e nel 1913 ne uscì sottotenente dei Granatieri.
Partecipò alla guerra di Libia e alla prima guerra mondiale. Nel 1941 fu al comando della Difesa Territoriale di Roma e al comando del XVII Corpo d'Armata. Ad ottobre, ebbe il comando della Scuola Militare di Roma a Palazzo Salviati e con la famiglia andò ad abitare nella palazzina accanto al palazzo che era adibita proprio ad alloggio di servizio per la famiglia del Comandante. Nell'ottobre del 1942 venne promosso generale di brigata e destinato al comando della Divisione "Cagliari" quale comandante della fanteria divisionale in Grecia, a Navarino nel distretto di Pylos. Quindi, al momento della partenza di mio padre dalla palazzina di Via della Lungara, anche noi familiari dovemmo abbandonare l'abitazione e ci accomodammo in casa della nonna, nel quartiere Nomentano.
Questa è in breve la sua carriera militare. Poi è partito per la Grecia, e del suo periodo di comando sappiamo solo quanto ha scritto nelle sue lettere, pur molto censurate. Per lui è un periodo di grandi sacrifici, si lamenta dei suoi collaboratori "inetti e passivi" e soprattutto della lontananza dalla famiglia.
Il 30 agosto viene a Roma in licenza e ci sistemiamo alla meglio sempre nella casa della nonna al quartiere Nomentano per i pochi giorni della sua licenza. Il 7 settembre mattina, quando l'armistizio era già stato firmato, anche se non ne avevano ancora dato notizia, ai suoi colleghi al Ministero della Guerra che gli avevano suggerito di non ripartire, papà rispose che "non poteva abbandonare i suoi soldati" e ripartì in aereo e raggiunse Navarino. Lasciò però a Roma il suo diario del periodo appena trascorso e nell'ultima pagina ha come una premonizione di quello che accadrà: "… questi miei ricordi intimissimi dei miei mesi di Grecia… rifletto che non mi convenga confidare ciò che penso e sento, ancora ad un altro quaderno. Potrebbe essere pericoloso se un giorno cadesse in mano al nemico. Questo lo manderò alla mia Anna perché lo custodisca fino al mio ritorno, se Dio vorrà che un giorno io ritorni. Io resterò qui a fare il mio Dovere ma senza più confidare ad alcuno l'animo mio…"
Il 18 settembre 1943 viene arrestato insieme con il generale Paolo Angioy: i due generali erano andati a protestare presso il Comando interinale del Corpo d'Armata tedesco per alcune divergenze circa il trattamento degli scaglioni di truppe italiane e per controllare la voce relativa all'internamento degli ufficiali.
Dopo questo primo arresto, sappiamo che è stato portato ad Atene da dove, mentendo, gli dicono che partirà diretto in Italia. Invece scrive … "Sono arrivato qui, il 28 settembre dopo otto giorni ed otto notti di viaggio". "Qui" è il campo di concentramento di Schokken (Oflag 64Z) (attuale Skoki) in Polonia dove sono internati generali ed ammiragli catturati dai tedeschi. Questo campo, ricavato da un ex-collegio di corrigendi del 1912, è costituito da varie palazzine, discrete nella loro architettura esterna, ma i cui interni sono invece piuttosto squallidi. Un grande cortile dove con qualunque tempo, si procede due volte al giorno ad interminabili appelli. E' ben noto che nei Lager si moriva letteralmente di fame. Nel diario di un ammiraglio rinchiuso nello stesso Lager, Emilio Brenta, viene descritto accuratamente la modesta razione che veniva fornita dalla Werhmacht: basti dire che mio padre che all'inizio della prigionia pesava 91 chili (era alto quasi due metri), quando lascerà il campo per l'ultima marcia verso la morte, ne peserà 60. Poi il freddo della Polonia che è "crudo, pungente" per chi come mio padre era equipaggiato per la Grecia. In una lettera scrive che gli hanno sequestrato anche l'impermeabile perché "secondo loro, è un indumento che i prigionieri non devono avere".
Ai generali internati era concesso di scrivere cinque lettere e cinque cartoline su moduli forniti dalla Kommandantur; proibizione di scrivere ad Enti, ad autorità diplomatiche e consolari, autorità governative. Era concesso anche di inviare mensilmente due moduli per ricevere pacchi. Mia madre li ha sempre utilizzati: ricordo con una certa commozione la confezione di questi pacchi che non era affatto semplice. Prima di tutto bisognava trovare il cibo da inviare, cosa non facile dato che anche a Roma si faceva la fame. E poi anche la scelta era ardua: dovevano essere alimenti che duravano nel tempo considerato il lungo viaggio che dovevano affrontare e che non fossero ingombranti e pesanti dato che il pacco non poteva pesare più di cinque chili; e poi il contenuto doveva essere sistemato in cassette di legno oppure di cartone molto pesante che a sua volta doveva essere ricoperto da un pezzo di tela bianca sulla quale doveva essere scritto l'indirizzo su tutti i lati.
La cosa più importante per i prigionieri era sia non cedere ai continui incitamenti da parte di varie autorità italiane e tedesche ad aderire alla repubblica di Salò sia a non lasciarsi andare. Lasciarsi andare in effetti significava morire. Nelle lettere spesso mio padre, per esempio, chiese del lucido da scarpe, lucido che avrebbe preso il posto di un qualche alimento. Quindi la dignità della divisa che indossava valeva quanto la fame che doveva sopportare.
Oltre alle lettere, mio padre scriveva, e questa volta senza censura, su di una agendina. Scrisse pensieri, sentimenti, situazioni. Alla data del 31 dicembre 1944 scrisse qualcosa che, alla luce degli avvenimenti successivi, assume il valore di un testamento spirituale: "Il mio cuore è lontano e vola giù nella mia Italia, laddove i cuori pulsano per me. … Dio benedica la mia Anna, il nostro Paolo, la nostra Maria; … nella baracca dei soldati hanno organizzato una festa … poveri ragazzi, sono allegri e chiassosi, hanno venti anni almeno al di sotto di me … pregherò un poco … grande conforto …fra poco inizierà il 1945, anno che, con tutta l'anima, invoco da Dio sia quello della pace, quella pace che consentirà di ritornare … continue alternanze, speranze, illusioni, disillusioni … una guerra crudele … Roma e soprattutto il mio NO", No a lasciarsi andare, no ad aderire alla Repubblica di Salò. Da notare che in tutti i suoi scritti non c'è mai una parola di risentimento o di odio per i suoi carcerieri: crede fermamente in Dio, e invita mia madre a fare altrettanto, incoraggiandola continuamente. Alla fine del 1944 scrive: "Certo, il timore di passare in queste umilianti condizioni di internati un nuovo inverno polacco, è grave: ma è altrettanto certo che non per questo potrei cambiare idee e sentimenti". Il suo "NO" è più fermo che mai. Non si è quindi trattato di un imprigionamento passivo ed inevitabile, ma di scelta consapevole e precisa..
Il 12 gennaio 1945 i sovietici attaccano sulla Vistola ed i tedeschi sono costretti ad indietreggiare. Il 20 arriva l'ordine di evacuare il campo di Schokken per quello di Luckenwalde a sud di Berlino. Gli internati sono avviati a piedi verso occidente, si profila un'altra marcia della morte. La distanza da coprire è di varie centinaia di chilometri. I prigionieri si muovono nel gennaio polacco in relazione all'età, alle condizioni fisiche ed alle diverse andature. Si sbandano, percorrono strade diverse. Si forma un gruppo di diciassette internati fra cui mio padre che si ferma in un piccolo paese Selkow (attuale Kusnica Zelichowaska). Per sfuggire al freddo e rifocillarsi entrano in una taverna, dove sono visti da un sottufficiale della Luftwaffe, Otto Hois. Il giorno dopo all'alba una pattuglia di SS che tornava dal fronte, ormai vicinissimo, viene guidata dal sottufficiale alla stalla dove dormivano i diciassette ufficiali. Vengono messi in marcia di nuovo. Due o tre SS ed un generale. In fila. Assassinano per primo il generale Carlo Spatocco, sofferente ad un piede, ha una scarpa in mano, poi Emanuele Balbo Bertone di Breme che fa in tempo a gridare "Assassini"; poi mio padre. Vi sono delle donne polacche, ancora esseri umani, loro, che gridano per l'orrore. Segue Alessandro Vaccaneo, poi Giuseppe Andreoli ed ultimo Ugo Ferrero. Il resto della colonna prosegue. Sarà un maggiore della Werhmacht a fermarla. Tutti i generali vengono messi al muro, uno di loro, il generale Giuseppe Pagliano mi racconterà che in quel momento supremo, quando credeva che di lì a poco sarebbe stato fucilato, era riuscito a pensare che non poteva morire come un commesso viaggiatore ed ha lanciato dietro di sé la valigetta con le sue poche cose. Non moriranno. Saranno condotti in un altro Lager in condizioni penose, un generale, Guido Cerruti avrà tutte e due le gambe amputate per congelamento, ma torneranno e racconteranno.
Nel mese di luglio i generali Ugo Tabellini ed Amedeo Sorrentino, accompagnati da un medico italiano e da due medici russi molto competenti e scrupolosi, si recano a Selchow per ricercare le salme dei compagni uccisi. Riconoscono le salme, recuperano gli oggetti personali, le mostrine delle divise, gli orologi e nel caso di mio padre anche l'agendina, sulla quale aveva scritto tanti suoi pensieri. Dato che era rimasta sottoterra per un po' di tempo, l'inchiostro era scolorito ed in molti punti era pressoché illeggibile. A suo tempo mamma cercò in tutti i modi di poterla leggere o far leggere senza risultato. Negli anni scorsi però io avevo saputo da uno dei figli di mio fratello, Fabiano, che all'università aveva potuto leggerne dei brani con l'aiuto della lampada di Wood. (Per Lampada di Wood, si intende una sorgente luminosa che emette radiazioni elettromagnetiche prevalentemente nella gamma degli ultravioletti). Allora ne comprai una portatile e la portai con me a Belgrado che è stata l'ultima mia sede di lavoro. Misi al computer una cara ragazza belgradese che si era laureata in lingua italiana ed io con la lampada di Wood da una parte e l'agenda dall'altra ho recuperato quanto era possibile leggere dall'agendina.
La salma di mio padre è stata portata gratis ad Ancona da una nave russa "l'Argun" nel gennaio del 1956, ma i funerali ufficiali dovettero essere rinviati per l'opposizione di un importante uomo politico che teneva le sue elezioni in quel periodo in quella città. Ricordo l'arrivo al porto di Ancona. Il 5 gennaio 1956 vedemmo arrivare la nave nelle nebbie del primo mattino. Ad attendere la piccola cassetta con i resti di mio padre c'eravamo solo mia madre, mio fratello ed io ed un ambulanza pronta a portare la cassetta al cimitero.
L'equipaggio della nave era schierato tutto sull'attenti sulla tolda dove c'era anche una piccola cassetta con i resti di mio padre e tanti fiori freschi. Non c'era una rappresentanza diplomatica, né tantomeno una rappresentanza militare. Mia madre si sentì in dovere di portare dei fiori alla moglie del capitano che viaggiava con lui in ringraziamento per la sua generosa disponibilità. La cassetta fu deposta nella camera mortuaria del cimitero e solo dopo tre mesi circa avemmo la possibilità di celebrare il funerale ufficialmente.
Con l'aiuto di Simon Wiesenthal sono riuscita a sapere il nome dell'assassino, Otto Heuss e di un testimone oculare polacco, Jan Witka. Sono andata in Polonia per conoscere questo testimone e ho intrapreso un processo contro Otto Heuss, ovviamente senza nessun risultato.

(Maria Trionfi)